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Ravel e la danza

di Emanuele Vegetti -

La danza è la materia che Ravel maneggia con più disinvoltura: il turbinio convulso della vita che si fa coreografia, lo spasmo cieco che evolve in passo, in gesto rituale. La danza, idioma mimetico e cifrato, gli appartiene. Il suo nucleo sintattico è l’allegoria, il suo voto la reticenza, il suo puntiglio l’astrazione. E quale artificio più elusivo e sublime di quello che incanta il palazzo di Adélaïde, in cui a parlare non sono le lingue, ma i fiori?

Nulla forse estetizza la realtà quanto la dorata finzione della danza; motivo per cui Ravel, compulsivamente attratto da maschere e nascondimenti, in essa riconobbe senza esitazioni il proprio elemento. La sua opera d’esordio fu un Menuet antique, memore di Chabrier, pubblicato nel 1895; pochi anni più tardi, nel novantanove, avrebbe visto la luce la Pavane pour une infante défunte, sorta di eco consolatoria alla struggente Pavana di Gabriel Fauré, che di Ravel era stato maestro. Due danze a inaugurare un’ascesa eclatante nel gotha della musica francese. 

Di minuetti Ravel ne avrebbe prodotti altri ancora: il Menuet sur le nom de Haydn (1909) e i due contenuti rispettivamente nella Sonatine (1905) e nel Tombeau de Couperin (1917) scintillano come piccoli capolavori. La pavana (danza rinascimentale a lungo ritenuta di origine spagnola, ma il cui nome suggerisce una più probabile provenienza padovana) avrebbe invece fatto nuovamente capolino nella suite Ma Mère l'Oye (1908): il suo moto pendolare – ipnotico, torpido – è immagine dell’incantesimo che strega il sonno della «Belle au bois dormant».

Forlane, fox-trot, valzer e rigaudon avrebbero rapito a fasi alterne l’attenzione camaleontica di Ravel; e i grandi coreografi del tempo non avrebbero tardato a tradurre quelle cadenze circolari in balletti pieni di fascino. Fu lo stesso Ravel a suggerire quanta attenzione riservasse a questo ambito della sua produzione: «Le mie opere più importanti sono Ma Mère l’Oye e Daphnis et Chloé, tutt’e due balletti», affermò in un’intervista del 1926; e ancora, a proposito del Ma Mère l'Oye: «Ho voluto che tutto, per quanto possibile, fosse danzato. La danza è un’arte meravigliosa […]». Elaborò in prima persona anche delle «fragili tracce» che potessero dare coerenza narrativa ad alcuni di questi preziosi divertissement; trame quanto più possibile frivole, trasognate, intessute allo scopo di aumentare la distanza, in termini di autenticità e potere d'immedesimazione, tra l’artista e lo spettatore (si pensi ad esempio alla vicenda amorosa quasi caricaturale narrata in Adélaïde, ou le langage des fleurs, balletto ricavato dall’orchestrazione delle Valses nobles et sentimentales). Si tratta insomma sempre e comunque di un gioco di specchi e di schermi, di un raffinato esercizio di dissimulazione.

«La danza è la forma naturale di questa musica, la danza, vale a dire il ristagno, il movimento ristretto in un piccolo spazio, l’azione turbinosa, che, invece di sfociare nel mondo, rifluisce su se stessa, trova il suo scopo all’interno di se stessa, segna il passo e gira in tondo [...]. Tutto si risolve in affannosi dimenamenti, in inutili movimenti e figure, in passi in avanti seguiti da arretramenti senza scopo» (V. Jankélévitch).

Ravel

Emanuele Vegetti

Emanuele
Vegetti

Classe 1996, Emanuele Vegetti ha conseguito il Diploma Accademico di II livello in pianoforte al Conservatorio «Luca Marenzio» di Brescia col massimo dei voti e la lode. Si è esibito come solista e in formazioni da camera in diverse città del Nord Italia e in Svizzera. Attivamente impegnato nella divulgazione musicale, cura e organizza lezioni concerto nella doppia veste di interprete e relatore. Dal 2022 si dedica alla stesura di articoli e note di sala. Tra le sue collaborazioni più importanti quelle con l’Orchestra Sinfonica di Milano, l’Orchestra UNIMI e il portale classicalive.it.

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