Cantiere Internazionale d'Arte 2024
All’inizio e alla fine del Tomo I del Don Quijote, Cervantes inserisce alcuni sonetti, come era di tradizione nella letteratura picaresca dell’epoca, tutti dedicati ai personaggi principali del romanzo ed accomunati da uno sferzante senso ironico e comico. È lo sguardo dell’autore che, divertendosi a scherzare sulle sue stesse creature, osserva criticamente il suo tempo: un’epoca durante la quale il Rinascimento inizia a sciogliersi in una nuova e differente realtà storica che si porta via l’uomo unitario e senza fratture dell’antichità.
Per Imágenes errantes ne ho selezionati tre, ognuno dei quali dedicato rispettivamente ai personaggi più importanti del romanzo: Don Quijote, Sancho Panza e Rocinante.
Cervantes, tuttavia, non parla in prima persona ma attraverso le voci di altri protagonisti della letteratura spagnola della sua epoca che lui sceglie per fare da portavoce nel suo gioco ironico. In particolare, si tratta di Don Belianís de Grecia, protagonista dell’epopea più famosa di Jeronimo Fernández de la Mata, scrittore di poco precedente, che recita un’improbabile ode a Don Quijote; Babieca, la cavalla ‘babbea’ di El Cid, che disquisisce col ‘collega’ Rocinante delle infami condizioni della loro professione e di un non ben identificato soggetto, il Burlador academico argamasillesco, che ci racconta dei sogni e delle disavventure di Sancho Panza. L’atmosfera è carnevalesca, tutto è a capo l’ingiù, e questa ‘trinità’ bizzarra si fa simbolo e simulacro della follia che, come disse Erasmo da Rotterdam, è ’l’unica cognizione positiva sul vuoto della vita’. Don Quijote è il folle che ci fa saggi e i suoi compari lo accompagnano in questo cammino sui e ai margini; è colui che vuole riformare la realtà, la caricatura dell’utopia destinata al fallimento, è la metafora del creativo in un’epoca in cui la creatività è ridotta all’agonia da protesi tecnologiche progettate per alimentare il delirio narcisistico individuale e gli automatismi del sistema del consumo. Imagenes errantes è la ‘sonorizzazione’ di questo mondo carnevalesco il cui protagonista principale mi è particolarmente caro e risuona in me come un lontano affetto; un irriducibile radicale dell’etica dotato di grande resilienza e, come immaginava Orson Welles, resistente persino alla bomba atomica. Probabilmente la pervasività di Don Quijote nel linguaggio e nell’immaginario collettivo suggerisce che il suo significato va a toccare le profondità primordiali dell’essere umano e ciò, forse, ci fa pensare che in ognuno di noi ci sia un po’ di Don Quijote...
(Stefano Pierini)
el RETABLO
“Cos'è la vita? Delirio.
Cos'è la vita? Illusione, appena chimera ed ombra, e il massimo bene è un nulla, ché tutta la vita è sogno, e i sogni, sogni sono.”
Calderon de la Barca
“È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sonno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua”
Schopenhauer
“Quella folgore-guida, non pedagogizzabile, è connessa ad uno squarcio, al venir meno di tutta una catena di rimozioni durate per secoli, è il cortocircuito di una fine e di un inizio: che tuttavia offre nuove ragioni anche a quanto resta e deve restare nascosto o seminascosto.”
Andrea Zanzotto sulla Tempesta di Giorgione
“Il velo del Tempio si squarciò” Mc 15, 38
LA LACERAZIONE DEL TEATRINO DI MASTRO PEDRO
Da sempre campione di un mondo in crisi, Don Chisciotte è divenuto grazie ad una celebre opera del filosofo francese Michel Foucault, Le parole e le cose, anche l’emblema o meglio il protagonista esemplare di una crisi del sapere e della conoscenza, che avrebbe caratterizzato il passaggio non privo di stravolgimenti politici, sociali, antropologici e psicologici tra l’epoca rinascimentale ancora impregnata di una visione fideistica del mondo, e l’alba di una nuova epoca, positiva e classificatoria, dove calcolo, misura e ordine sono i paradigmi di una nuova conoscenza che sopperiscono alla separazione fra “le choses et les mots”.
Il personaggio del romanzo di Miguel Cervantes incarna in prima persona il limite, la discontinuità tra questi modi del sapere, scontrandosi direttamente con una personale disfunzione della conoscenza. Don Chisciotte impersona la radicalità di tale crisi, mostrandosi profondamente compenetrato con il sistema di pensiero rinascimentale, e, per contrasto, inadatto e fortemente in lotta con il mondo in cui vive.
Questo attaccamento a un modo di pensare e di vedere il mondo - ma anche a un mondo in sé - ormai perduto, emerge chiaramente dal modo di agire di Don Chisciotte, le cui gesta appaiono sempre motivate da segni visibili nella realtà che ricordano per analogia (come in una similitudine dell’epica) quanto raccontato dal mito, dalla poesia, dalla letteratura: gli immensi mulini a vento, la macchina mostruosa delle loro pale, l’energia che essa genera e che dunque essi possiedono è come quella di mitici giganti, così dunque, per Chisciotte, i mulini sono giganti a cui dare battaglia. Egli continua ad affermare in ogni situazione una visione interamente permeata dalle similitudini della poesia, le quali costituiscono, per lui, l’unico strumento adatto a conoscere e comprendere la realtà: il fondamento di una vera e propria fede. Secondo questa mistica l’uniformità tra le parole e le cose continua ad esistere e Chisciotte si ostina ad affermare un’inattuale sopravvivenza dell’antico nel nuovo, del mondo della poesia dove tutto si tiene, contro il mondo del calcolo che separa il mondo dalla sua rappresentazione.
Nel romanzo di Miguel de Cervantes, l’episodio del teatrino del Mastro Pedro rappresenta l’esempio di come anche una forma di finzione evidente ed esibita come quella dello spettacolo dei burattini possa costituire per Don Chisciotte l’ennesima occasione d’errore: una fra le numerose scene in cui l’incapacità
di distinguere fra il piano della realtà e quello della finzione induce Don Chisciotte all’equivoco.
Il contesto, questa volta, è lo spettacolo di burattini “La liberazione di Melisendra”, una storia tratta dall’epica cavalleresca di cui Don Chisciotte ha letto nei suoi amati libri, e che dunque considera assolutamente attendibile. Centrale, nell’episodio, è la funzione giocata dal retablo ovvero, in lingua spagnola, il quadro della scena, il quadro della rappresentazione ovvero la cornice del teatro: cioè il limite, la frontiera tra la razionalità e l’immaginazione, ovvero il teatro come sostanza stessa, persino ostentata, della “rappresentazione”.
“tutto da ogni parte circondato da candeline di cera accese, che lo rendevano vistoso e splendente”
A questo episodio si rifà fedelmente la composizione di De Falla che, per elementi compositivi, pare intuire con largo anticipo le riflessioni di Foucault. Laddove infatti in Cervantes il giovane banditore declama la vicenda indicando le marionette e contemporaneamente si sovrappone con la sua voce all’azione scenica, nell’opera di De Falla i due momenti sono scissi, come a sottolineare la distanza tra le parole, il linguaggio, la letteratura e le cose.
Nella restituzione di Anagoor, al di là di sipari decorati con riproduzioni giganti delle celeberrime incisioni di Gustave Doré per il Don Chisciotte (pubblicate nel 1861), l’opera dei pupi o il teatrino dei burattini è sostituito da un teatro d’ombre, simbolica evidenza di una diafana evanescenza, labile parvenza di realtà, caverna platonica, inafferrabile sogno, fantasmi, a sancire, se ce ne fosse mai bisogno, l’inefficacia della rappresentazione, il suo essere effimera come la vita degli umani, un sogno d’ombra. Questo teatrino di carta, con i suoi fragili sipari che schermano e proteggono, dichiara la relazione del Teatro col regno dei morti. Intorno al teatrino, e alla luce tremolante delle sue candeline, prendono forma tutte le ambiguità costitutive della relazione fra la dimensione poetica e la conoscenza create dalla coscienza di Don Chisciotte, incapace di comprendere il frame finzionale, appunto di rappresentazione, dello spettacolo. Tale incapacità si mostra non appena Don Chisciotte prende posto nel pubblico, laddove, reputando scorretta la restituzione della storia, egli interrompe il burattinaio e lo rimprovera: “Questo poi no! [...] Mastro Pietro è completamente fuori strada, perché non usano campane fra i mori, ma tamburi e un tipo di dolcemele che rassomiglia alle nostre ciaramelle...” “Giovanotto, giovanotto [...] continuate la vostra storia in linea retta, e non cacciatevi in curve o trasversali, perché per potere attingere la verità su di un fatto occorrono molte prove e controprove”. Don Chisciotte mostra così di non cogliere lo sdoppiamento di livello causato dalla rappresentazione. “Ferito”, anzi, dall’utilizzo inaccurato dei suoi modelli interviene per correggere lo spettacolo, infrangendone i codici. Come presentendo i sintomi di uno svuotamento di senso della poesia, ma anche di una visione del mondo e del mondo stesso, Don Chisciotte avverte il manifestarsi di una volgarità di fondo, sentendo come blasfemo l’utilizzo di ciò che per lui è sacro, scoprendo che la poesia, per il senso comune, si presenta in forme atrofiche, astratte, non più morali. Il suo gesto appare perciò come un tentativo di riaffermare, contro il tempo privo di profondità e di altezza in cui ormai si trova immerso, il tempo di un’azione etica. Poco dopo, Don Chisciotte dà un’ulteriore prova di incapacità di lettura, mutata tuttavia di segno. Di fronte alla scena in cui Melisendra e Don Gaiferos fuggono, Don Chisciotte passa dal distacco “critico” all’immedesimazione, travolto dal pathos della narrazione, e finendo per credere di poter salvare Melisendra e Don Gaiferos. Egli si alza in piedi e attacca il burattinaio, ritenendolo colpevole: “Io non potrò permettere che in vita mia, e al mio cospetto, si faccia un torto a un così famoso cavaliere e ardimentoso amante come don Gaiferos. Fermatevi, malnata canaglia, guardatevi dal seguirlo e dal perseguitarlo, o dovrete battervi con me.” Don Chisciotte considera le vicende narrate non solo reali, ma anche come se stessero realmente avvenendo in quel preciso istante davanti ai propri occhi. La sua esperienza di fruizione appare ora fondata su quella stessa condizione di sospensione dell’incredulità che egli vive nel quotidiano, una disposizione all’incanto, ma applicata in una forma tanto radicale da indurlo a credere che il tempo della finzione, ovvero il tempo in cui si svolge la rappresentazione, coincida con il presente. Si genera così un importante paradosso: se solitamente per Don Chisciotte è la realtà a piegarsi alle leggi della finzione (i mulini a vento che sono come dei Giganti, devono per forza essere dei Giganti), stavolta è la finzione a dover essere riportata alla coerenza e alla somiglianza con la verità: la vicenda agita sulla scena è tanto coinvolgente da essere per forza autentica. Un simile capovolgimento rende evidente il radicale rifiuto di Don Chisciotte del «principio di realtà», ma soprattutto rivela (per i paradigmi del tempo dell’ordine, della misura e del calcolo) il pericolo connesso al suo modo di pensare, la componente di follia che esso sostanzia. Pensando e sentendo la scena del teatro come fosse la realtà, Don Chisciotte, crede i protagonisti in pericolo di morte, e sguaina la spada per difenderli da chi sta dando loro la caccia. In questo modo, egli provoca non solo metaforicamente la rottura della quarta parete della finzione teatrale. Distruggendo il teatrino e le sue marionette, «buttando giù questo, decapitando quello, storpiandone uno, schiacciandone altri», Don Chisciotte precipita in un disperato «dissennato furore» che finisce per scardinare la rappresentazione, “facendo strage” della macchina teatrale. Invadendone il limite, non rispettandone i codici, squarciandone il fondale, Don Chisciotte abbatte e insieme oltrepassa la frontiera del teatro e, infine, entra nel teatro stesso, rompe e confonde i confini fra il passato e il presente, fra l’immaginario e la realtà brutale, generando l’intersezione tra due mondi. Per attualizzare tutto questo, Don Chisciotte non deve solo attraversare la frontiera, deve farsi frontiera e teatro. Deve superare la propria condizione marginale e prendere coscienza della fine del suo mondo. Fuori dal limite, Don Chisciotte non può vivere; ma deve assumersi il ruolo di soglia, di strumento di transito. Don Chisciotte stesso, con il teatro, è la lacerazione, il varco.
(Simone Derai)
ClassicaLive pubblica eventi presenti sul web o su segnalazione diretta degli enti organizzativi o degli artisti. Ti suggeriamo di consultare sempre i canali ufficiali per essere aggiornato sugli eventi di tuo interesse.
Su ClassicaLive è possibile esplorare una vasta gamma di spettacoli, concerti e festival in tutto il nord Italia. La piattaforma offre la possibilità di cercare eventi in base a diversi criteri: potete consultare l'elenco di tutti gli artisti o compositori per trovare gli eventi in cui si esibiscono, cercare eventi in un luogo specifico o scoprire rassegne musicali in corso.