Il portale dedicato agli eventi di musica classica

Monica Bacelli
Ex Novo Ensemble

Astrazione ed espressione

Venezia
Teatro La Fenice [Mappa]
martedì 12 dicembre 2023
ore 20:00

Programma

Paul Hindemith
Sonata per Clarinetto
Claude Debussy
Sonata per Flauto, Viola e Arpa
Igor Stravinsky
Epitaphium, K090
Gian Francesco Malipiero
da Sonetti del Berni: Chiome d’argenti fine, irte e attorte senz’arte – Cancheri e Beccafichi
Bruno Maderna
da Liriche su Verlaine:
Aquarelles (da Romances sans paroles)
Sérénade (da Poèmes saturniens)
Sagesse

Artisti

Rassegna

Ex Novo Musica 2023

Informazioni

Gian Francesco Malipiero e Bruno Maderna: chi fu l’allievo e chi il maestro?
«Chi si aspettasse la chiarificazione puntuale di un eventuale discepolato malipieriano a Maderna, resterà infatti molto, molto deluso. Innanzitutto, in questo rapporto, i ruoli sembrano essere, meglio dire sono, indiscutibilmente intercambiabili. Non è tanto solo Malipiero che serve alla crescita di Maderna, ma piuttosto avviene il contrario: Maderna serve a Malipiero per rimettersi in gioco anche come compositore nel terribile secondo dopoguerra. Gli offre nuovi stimoli […], gli suggerisce nuovi strumenti per un’autoanalisi linguistica su cui si fonda la struttura della continuità dell’ermetico linguaggio del vecchio maestro» 
«È anche vero che Malipiero ha aiutato moltissimo Maderna: lo ha adottato, ma non gli ha voluto insegnar nulla, non gli ha chiesto prove d’amor epigonico, non ha posto vincoli al suo talento; gli ha solo raccontato come è cominciata la cosa per lui: non nelle classi di Conservatorio, ma nella frequentazione di tracce antiquarie nella sala manoscritti della Biblioteca Marciana. Poi lo ha presentato a Dallapiccola e a Scherchen, quindi lo ha nomignolato affettuosamente “figlio mio snaturatissimo”, stimando sempre la sua diversità. […]» Paolo Cattelan, Premessa a AA.VV., Malipiero Maderna 1973-1993, Olschki, 2000

Gian Francesco Malipiero e Paul Hindemith
In «Visita a Paul Hindemith», un articolo della Gazzetta del Popolo del 15 settembre 1936 (n. 220, p.3) Malipiero fa il resoconto di un incontro con Hindemith nella sua casa di Berlino, nell’estate del 1936: «Da un anno sapevamo che Hindemith aveva finito poesia e musica di una nuova opera della quale potemmo finora sentire soltanto qualche frammento sinfonico nei concerti: Mathis der Maler. [...] Hindemith, raccontandoci il soggetto e suonando i punti principali di questo suo ultimo lavoro teatrale, appariva insolitamente nervoso, agitato, e noi eravamo commossi perché la musica di questo Mathis der Maler ci avvince e ci convince. È una musica forte, dal respiro largo, drammaticamente efficace. Sentimmo che anche egli, amareggiato e deluso, avrebbe voluto sotterrare gli arnesi del suo mestiere. Dimenticare! Perché? Congedandoci non sapevamo come calmarlo o consolarlo anche perché non riusciamo nemmeno ora a comprendere la sua vera situazione. Trovandoci un po’ nelle sue stesse condizioni gli dicemmo che oramai anch’egli era un musicista universale, e di non preoccuparsi perché avendo nel mondo intero ammiratori fedeli che lo seguono e comprendono l’isolamento non è possibile.» In filigrana a questo racconto si legge il momento di insanabile contrasto che Hindemith visse a partire dal 1936 con il regime nazionalsocialista culminato con l’esilio in Svizzera, a Bluche-sur-Sierre, nel Vallese, nel settembre 1938. Hitler in persona si era opposto all’allestimento di Mathis der Maler, Hindemith era stato accusato di ‘bolscevismo culturale’; nella primavera del 1937 era stato costretto a dimettersi dalla Hochschule di Berlino. Nelle ripetute tournée americane di quegli anni si posero le basi per il suo trasferimento negli Stati Uniti, avvenuto nei primi giorni del 1940.

Paul Hindemith Sonata per clarinetto e pianoforte. La Sonata fu composta in soli sette giorni (21-28 settembre 1939). Si inserisce nel vasto progetto di Sonate per strumento solista e pianoforte, dalla difficoltà strumentale misurata, destinate all’attività concertistica: venticinque opere in totale di cui ben sedici furono composte negli ultimi anni di permanenza in Europa. In questa fase creativa Hindemith aveva abbracciato l’utilizzo di condotte armoniche moderatamente diatoniche, a tratti arcaicizzanti, con impiego di procedimenti imitativi e pedali armonici: il progetto era quello di aderire pienamente a regole formali classiche benché ripensate sotto la lente del suo potente sguardo inventivo. Nella sua principale opera teorica, Unterweisung im Tonsatz, revisionata proprio nel periodo 1937-39, Hindemith propone una ricerca di ‘naturalezza’ e compostezza nell’organizzazione dei materiali. Le forme classiche devono venir rimeditate con autenticità emotiva ma senza eccessi e perdita di equilibrio; nelle mani di quel grande interprete qual egli era, il corpus delle Sonate costituisce l’emblema di un ‘far musica’ dal piglio comunicativo, limpido e sereno. Anche se può stupire, tale fu il messaggio che Hindemith volle consegnarci nel periodo più triste e avventuroso della sua vita.

Claude Debussy Sonata per flauto, viola e arpa. Nel 1915 Debussy era ormai il più grande musicista di Francia, il più rappresentativo della sua patria; la sua gloria risplendeva nel mondo intero. Giunto all’apogeo della sua carriera, quando il suo paese subiva la terribile prova di una lunghissima guerra il suo impegno fu quello di manifestare la vitalità dell’antica arte nazionale, contro l’establishment musicale francese che si nutriva di prescrizioni accademiche imponendo al compositore l’«armatura delle formule», l’«accumulazione dei motivi e dei disegni sovrapposti», lo stile «classico amministrativo». Ecco perciò l’evocazione di antichi maestri: Rameau e Couperin, poi Massenet e Offenbach. Un’evocazione che ha poco di concreto, ma circoscrive piuttosto un luogo dello spirito, un luogo ove sognare una ‘tradizione francese’ in realtà ancora tutta da inventare. La Sonata per flauto viola e arpa, venne originariamente concepita come ideale filiazione di un tipico organico barocco (flauto, oboe e clavicembalo) attualizzato con l’impiego dell’arpa, uno degli strumenti simbolo della poetica debussyana, il cui ruolo centrale in Pelleas et Mélisande creò addirittura dei clichés per molti compositori a venire. La sostituzione dell’oboe con la viola – probabilmente preferita proprio per una maggior duttilità nel produrre sonorità velate e aeree – avvenne ad abbozzo già ultimato. Come nella sonata per violoncello, ma in modo più caratteristico, le melodie sono di una libertà di scrittura che ricerca uno stile monodico nuovo guardando molto indietro, fino alla musica medioevale. Canzoni popolari di trovatori e di trovieri, e più lontano ancora alla antichità indefinita del canto gregoriano. In una lettera a Robert Godet Debussy affermò di poter parlare della sua musica «senza arrossire», poiché era di un Debussy che lui non conosceva più. «É spaventosamente malinconica. E [non si capisce bene] se ci sia da ridere o da piangere. Forse tutte e due le cose?» [in Debussy, Correspondance, pp. 2056-58]

Igor Stravinskij Epitaphium. La partitura reca la dicitura «Für das Grabmal des Prinzen Max Egon zu Fürstenberg» (per la lapide del principe Max Egon di Fürstenberg), patrono dei Donaueschinger Musiktage. Stravinskij era stato ospite d’onore del principe, durante i festival 1957 e 1958. Alla sua morte, nell’aprile del 1959, Stravinskij, Pierre Boulez e Wolfgang Fortner, vennero invitati a scrivere una breve composizione in sua memoria. Uno dei brani scritti in onore del mecenate fu Epitaphium, prima opera di Stravinskij che impiega il metodo seriale in forma rigorosa. Contrastando i precetti fondativi della dodecafonia, la serie non fu costruita secondo principi meramente strutturali e mantiene, almeno parzialmente, una funzione tematica. Stravinskij infatti compose in origine una frase melodico- armonica seguendo il suo istinto inventivo e solo nel corso della stesura si accorse che la sequenza era sfruttabile serialmente. Il breve brano ha la forma di un insolito inno, con quattro strofe antifonali, ciascuna ripresa dall’arpa e dalla coppia di strumenti. Ogni strofa contiene la serie allo stato originale o nelle sue tre filiazioni (Inverso, Retrogrado, Retrogrado dell’Inverso). Data la brevità del brano non sono usate trasposizioni.

Gian Francesco Malipiero Due Sonetti del Berni. «Le Tre poesie di Angelo Poliziano, i Quattro sonetti del Burchiello e i Due sonetti del Berni sono “nove canzoni” che discendono direttamente dalle Sette canzoni. Musica e parola, armonia e ritmo qui vanno insieme. Si manifesta una specie di processo chimico che appunto genera la canzone, la quale però può assumere centomila aspetti: può diventare persino una sinfonia in molti tempi.» (G. F. Malipiero in Catalogo delle opere …, Treviso, 1952, p. 254) Dunque «una sinfonia in molti tempi» per voce e pianoforte nella quale Malipiero non solo utilizza testi attinti dalla letteratura antica ma raggela il tempo antico associandovi una musica che desta la sensazione di una peregrinazione senza pace, di un «brancolare nel buio» (Francesco Degrada). La negazione di ogni forma di sviluppo tematico, l’impiego di modalità e diatonismo, ammiccamenti allo stile popolare (come in «Cancheri e Beccafichi», la seconda canzone dei due Sonetti del Berni), costituiscono le premesse per innescare un processo di riproposizione variata dei motivi, incessantemente ‘distorti’, resi fonicamente inintelligibili, e porre dunque l’ascoltatore nella perpetua sensazione del ‘già sentito’ sempre illudendolo di poter raggiungere l’agognata condizione di riposo di una ‘ripresa tematica’. Il primo sonetto «Chiome d’argento fino irte e attorte» è la parodia del sonetto «Crin d’oro e crespo» di Pietro Bembo, di cui clona le immagini per capovolgerne il senso in modo paradossale e mettere in scena una descrizione della donna in opposizione alla figura angelica dell’originale. Secondo János Maróthy (Malipiero e gli aspetti della sua contemporaneità, in Quaderni di Musica/Realtà 3, 1982): «Nel primo sonetto Malipiero usa un tipo di nobile declamazione simile ai lamenti di Monteverdi. Abbiamo qui già un doppio contrasto: un lamento per descrivere “le bellezze della mia signora” – ed un accompagnamento che combina il fluire solenne delle figurazioni in sedicesimi con la cupezza delle quinte vuote e con la spaventosa incertezza dei tritoni, diabuli in musica. Il secondo sonetto è di nuovo in contrasto sia rispetto al precedente, sia rispetto al suo messaggio verbale. In questo caso il testo è una lagnanza aperta contro il fardello del matrimonio (condensata nell’ultima rima , “doglie” e “moglie”), tuttavia la musica è in apparenza molto lieta, assumendo i toni del grido di un ambulante che pubblicizza i meriti di una merce che egli vuole vendere.[…] Con Malipiero persino questo tema delle grida dell’ambulante, grottesco di per sé quando volete vendere le doglie e non il rimedio per esse, viene collocato in un ambiente estraniato mediante strutture di scale meccaniche, seconde minori dissonanti, settime maggiori e relazioni tonali mutate. L’esito è un lamento per la lode ed una lode per il lamento.»

Bruno Maderna Liriche su Verlaine. Dalla scheda predisposta da Giordano Montecchi all’interno del Catalogo ragionato delle opere (in AA.VV. Bruno Maderna documenti, Edizioni Suvini Zerboni, Milano, 1985) leggiamo: «Il testo è costituito da tre liriche di Paul Verlaine: per Aquarelles si tratta di una poesia intitolata in origine Green, la prima di un gruppo di sette liriche denominato per l’appunto Aquarelles e incluso nelle Romances sans paroles, pubblicate a Sens nel 1874. Il testo di Sérénade è costituito dalla poesia omonima tratta dai Poèmes saturniens, pubblicati a Parigi nel 1866. Sagesse è la prima lirica della seconda parte del lungo componimento poetico omonimo pubblicato da Verlaine a Parigi nel 1881.» Come fa notare Paolo Dal Molin: «Il periodo d’elaborazione delle tre melodie coincide con gli ultimi mesi di un significativo acme della fortuna di Verlaine in Italia, al quale per di più contribuiscono personalità operanti o gravitanti nell’orbita di Venezia, ove Maderna in quegli anni risiedeva frequentemente.» La lirica di Verlaine ha costituito in Italia una sicura fonte del Decadentismo, della poesia di Pascoli e soprattutto di quella di D’Annunzio. L’utilizzo dei suoi testi poteva risultare dunque per Maderna, in quei primi critici anni del dopoguerra, una etichetta di ‘compositore di retroguardia’. Le liriche infatti scompaiono immediatamente da tutte le biografie maderniane del periodo e non risultano citate neppure nel volume Maderna musicista europeo di Massimo Mila (1976). Non se ne conoscono esecuzioni pubbliche fino a quella avvenuta a Bonn il 16 marzo 1984 in occasione del ciclo Omaggio a Bruno, Eine Maderna-Retrospektive. Composte fra il settembre 1946 e il marzo del 1947 (non si conoscono date certe), le Liriche di Verlaine sono coeve al Concerto per due pianoforti e strumenti. Il Concerto presenta – secondo Paolo Cattelan – «una matassa stilistica molto ingarbugliata. Stravinskij e la dodecafonia nel primo Tempo, un’aura di neoclassicismo persino un po’ raveliana, avvolge il secondo, le tecniche di composizione microcanonica e Bartòk sono l’oggetto di ricerca del terzo». L’eclettismo di questo periodo creativo, già evidente nell’analisi stilistica del Concerto, viene ulteriormente confermato dalle Liriche su Verlaine, nelle quali non compare praticamente nessuno dei tratti stilisti sopradescritti. In una lettera del 19 gennaio 1943 dalla caserma degli Alpini di Merano a Irma Manfredi – l’amata madre adottiva – Bruno oltre a dichiarare di essere stato nella sua adolescenza «un fervente ammiratore della musica impressionista» e di Debussy ammette che: «sempre è stata per me viva la tentazione di una musica verticale, che mi consentisse di concepire una linea non in sé, ma sempre in rapporto, anzi quasi scaturita da un’atmosfera armonica.» Dopo aver constatato – nella medesima lettera - che tale ricerca lo accomuna a Hindemith, seppur gli esiti dei rispettivi percorsi siano molto diversi, Maderna afferma: «vado a poco a poco ritrovandola in una più matura analisi dell’accordo, quasi che la tecnica armonica vada sempre più raffinandosi in un processo che si potrebbe chiamare di spiritualizzazione della materia; a guisa degli antichi bulini da orefice, che qualche volta vediamo nelle botteghe degli antiquari […].» Nelle Liriche Maderna ricerca una grande fusione tra linea melodica e armonia, non rinunciando a cesellare quest’ultima fino a conferirle un colore e una timbrica del tutto originale. Seppur tale ricerca sia stata presto abbandonata a favore di altre intuizioni compositive, le Liriche ne costituiscono un meraviglioso frutto e una preziosa testimonianza.

Gian Francesco Malipiero Sonata a cinque. Nella famosa lettera a Gino Scarpa (Asolo, 16 agosto 1952) che fa da ‘Poscritto al catalogo delle proprie opere’ Malipiero scrive: «dalla lettura ai miei commenti al Catalogo risulta chiaro che non nutro uguale amore per tutte le mie creature. Per esempio, vorrei essere uscito dal silenzio non prima del 1911, con le prime Impressioni dal vero e che a queste avessero fatto seguito, sia pure dopo sei anni, le sole Pause del silenzio. I miei quartetti si salvano tutti, come la Sonata a cinque, i Ricercari e i Ritrovari». Scritta in una forma apparentemente sciolta e improvvisatoria, la Sonata a Cinque si fonda sull’impiego della “tecnica a mosaico”, largamente sperimentata da Malipiero nei suoi lavori cameristici degli anni Venti: una serie di brevi pannelli contrastanti, perlopiù senza relazioni tematiche tra loro, giustapposti e coesi con l’aiuto di uno o più motivi ricorrenti, si articolano in una specie di rondò libero e digressivo. Nel caso della Sonata a cinque troviamo come “tema ricorrente” una dolce progressione quasi a corale, inizialmente presentata dal pianoforte, e poi riproposta più volte dagli strumenti. Anche altri motivi ricorrono, ma in modo più saltuario e sempre imprevedibile, quasi a voler misurare la distanza di Malipiero da qualsiasi tentativo di sviluppo tematico in senso tradizionale, alla ricerca di una libertà episodica sempre attenta a non degenerare in amorfia. Uno dei tratti stilistici più marcati della Sonata a cinque è, come afferma Malipiero stesso, il gusto del vagare assaporando “l’aria delle strade della campagna”, lasciandosi trasportare da un libero alternarsi di umori: pagine profondamente rilassate, quasi sul punto di sprofondare in un sonno incantato, giustapposte ad altre nelle quali una allegria selvaggia si lancia in episodi cromatici aspri e drammatici. Cifra altrettanto rilevante della Sonata a cinque è la nostalgia per la musica del passato, in particolare per i periodi più remoti della storia italiana, dal Medioevo al secolo XVII: veri e propri fugati sembrano sintetizzare, in modo antiaccademico, una sorta di brioso contrappunto neomadrigalistico, uno dei tratti più personali della musica malipieriana di questi anni.

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