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Malipiero e il suo tempo

Venezia
Teatro La Fenice [Mappa]
domenica 26 novembre 2023
ore 20:00

Programma

Giorgio Federico Ghedini
Concerto a cinque
Giuseppe Tartini
Sonata op VI nr. 6 [GT 2.G10 / B G10]
Gian Francesco Malipiero
Impromptu pastoral
Sonatina per violoncello e pianoforte
Igor Stravinsky
Duo concertante, K054
Manuel de Falla
Concerto per pianoforte e cinque strumenti

Artisti

Rassegna

Ex Novo Musica 2023

Informazioni

INGRESSO GRATUITO

Bruno Maderna parla di Gian Francesco Malipiero
GEORGE STONE - Quindi la incoraggiava...
BRUNO MADERNA - Sì, era un uomo molto aperto e aveva grande rispetto per tutti, per i giovani così come per le persone anziane...
GEORGE STONE - È stato soprattutto Malipiero a incoraggiare il suo interesse per la musica del Rinascimento?
BRUNO MADERNA - Sì, senza dubbio. Mi interessava fin dall'infanzia, ma ne fui sempre più persuaso grazie a Malipiero: la musica rinascimentale rappresentava il terreno comune su cui si basava la nostra amicizia. Fu Malipiero a chiedermi di effettuare la prima trascrizione del meraviglioso Odhecaton A. Fu il primo a pensarci, ancora prima [degli americani]. Egli portò un esemplare dell'Odhecaton A da Treviso che io trascrissi integralmente. Ogni giorno ci incontravamo per leggere questa bellissima musica: egli ne era davvero entusiasta. Ne ricavammo delle brevi rielaborazioni strumentali, eseguite quindi da giovani musicisti. […]
ALAN STOULT - Ed è ancora molto attivo, Malipiero...
BRUNO MADERNA - Sì! Ed è un uomo dotato di grande curiosità. È come se improvvisamente si piazzasse un uomo del Rinascimento ai giorni nostri: si comporterebbe nella stessa maniera! Continua ancora oggi a scrivere musica e, curiosamente, quella che scrive oggi è, per quanto mi riguarda, la migliore che abbia mai scritto. È un uomo incredibile. Pensi, è coetaneo di Stravinskij... ed è ancora pieno di vitalità, di idee.
[dalla Conversazione con George Stone e Alan Stoult, in BRUNO MADERNA, Amore e curiosità, a cura di Angela De Benedictis, Michele Chiappini e Benedetta Zucconi, 2020]

Giorgio Federico Ghedini Concerto a cinque.
Per quanto affidato ad un organico cameristico il Concerto a cinque (1930) può considerarsi una rivisitazione e una attualizzazione della forma barocca del concerto grosso. Segue di pochi anni il Concerto grosso (1927) per flauto, oboe, clarinetto, fagotto, corno e archi e inaugura un’ampia serie di lavori concertanti tra i quali: Concerto dell’Albatro (1945) Concerto funebre per Duccio Galimberti (1948), Concerto detto il Belprato (1947), Concerto detto l’Alderina (1950), Concerto detto l’Olmeneta (1951). Una tendenza all’arcaismo religioso dialoga in queste opere con la tradizione italiana antica. Luciano Berio, che fu allievo di Ghedini, lo riteneva un compositore dotato di un altissimo magistero tecnico considerandolo «uno dei musicisti più equipaggiati, più sensibili e sapienti» nel panorama italiano. Per Berio: «La sua scienza musicale si legava spontaneamente alla civiltà musicale barocca italiana, il luogo del passato in cui egli trovava i riferimenti concreti per la propria prassi compositiva» ed era l’unico musicista italiano che avesse «gettato un ponte tra il barocco italiano e il nostro secolo». Per John Waterhouse i brani del periodo giovanile come il Concerto grosso e il Concerto a cinque «sfiorano il pastiche. La voce individuale del compositore è udibile solo a intermittenza, anche se tali opere sono state senza dubbio passi necessari verso le rivisitazioni molto più originali degli idiomi barocchi negli anni Quaranta.» Dello stesso parere è Goffredo Petrassi, grande sostenitore e amico di Ghedini: «[…] bisogna anche dire che [negli anni Trenta] non aveva ancora i connotati stilistici ed espressivi molto precisi che ha acquistato dopo: i tratti peculiari del suo carattere erano in quel momento annegati in una ricerca stilistica indeterminata, seppur nobilitata da una magistrale fattura». Petrassi coglie mirabilmente la statura umana e artistica di Ghedini: «É impossibile in una frase riassumere il profilo umano di Ghedini; ciò malgrado mi sentirei di insistere sulla sua passionalità, perché la sua immagine musicale era quella di un musicista freddo, cerebrale e distaccato. Era un uomo passionale ma con un’immagine molto severa.» Il Concerto a cinque ha dunque i tratti di un’esuberanza stilistica che origina nella tipicità del far musica di Ghedini che – sempre nelle parole di Berio – «era un pratico, un musicista artigiano, non c’erano contorni ideologici o analitici. Era sempre dentro la musica, nel bene e nel male.»

Giuseppe Tartini Sonata op VI nr. 6.
All’indomani della conclusione della pubblicazione dell’ultimo tomo delle opere di Claudio Monteverdi (1926-42) Malipiero scrive con desolazione: «Vorrei che oggi mi fosse dato di continuare all’infinito la ricostruzione delle opere di Claudio Monteverdi. Chi mi farà rivivere gli anni in cui sotto la mia penna, mentre trascrivevo i madrigali a cinque voci, vedevo rinascere i capolavori quasi per incanto? Non ricordo né sofferenze fisiche, né dubbi nel decifrare gli originali ricordo solo il mio entusiasmo.» Il rapporto di Malipiero con l’antico è passionale, istintuale, immaginifico; un mondo antico desiderato e sognato, a volte poco incline al rispetto filologico dei testi. La vicenda che portò alla pubblicazione di alcune Sonate di Tartini (1919) nella collana dei “Classici della Musica Italiana, Collana Nazionale diretta da Gabriele D’Annunzio” è la seguente: «volle il caso che a Milano (1916) incontrassi Umberto Notari dell’Istituto Editoriale Italiano, il quale […] mi proponeva di elaborare il programma di una grande collezione di musica del passato. […] Ottenni da Gabriele D’Annunzio che accettasse la presidenza e che scrivesse una specie di prefazione. Le cantate del Bassani rappresentarono la mia prima realizzazione del Basso di un’opera del passato e, pur evitando anacronismi, l’elaborazione, contrappuntisticamente, risultò molto ricca. Seguirono alcune sonate del Tartini, l’Orfeo di Luigi Rossi […]» La tematica del disvelamento di «una bellezza irrecuperabile contaminata dal tempo» ha certamente radici nel rapporto di Malipiero con Gabriele d’Annunzio, con il quale intrattenne un fitto carteggio (1910-1938). Secondo Malipiero, D’Annunzio «si affidò molto spesso alla musica per curare la sua tristezza» e «negli ultimi anni della sua vita, [la musica] fu alimento indispensabile al suo spirito». [Gian Francesco Malipiero, Ricordi e Pensieri, pp. 296, 328, 329]

Gian Francesco Malipiero Impromptu pastoral.
Questo piccolo brano, tra gli ultimissimi del catalogo malipieriano, sembra quasi una sfida ai radicalismi della Nuova Musica dalle colline di Asolo, «paesino sopravvissuto incontaminato, visione di un passato non reale». Impromptu pastoral, già dal titolo, arcaico ed evocativo, riflette la nostalgia per un mondo illusorio, incantato di cui Malipiero percepisce la drammatica assenza nell’ordinaria inumanità del vivere quotidiano. Secondo Armando Gentilucci (in Il linguaggio musicale come negazione della forma in Malipiero, Quaderni di Musica/Realtà 3, 1982): «Con monotona dolcezza, Gian Francesco Malipiero mima il senso di ineluttabilità della forma continua attraverso un linguaggio privo di tensioni cromatiche come di asprezze politonali, abbastanza estraneo però anche agli stupori armonici debussyani (passati almeno gli anni giovanili).[…] La strada per l’aristocratico, ironico e insieme malinconico viandante di cui qui ci occupiamo, consiste nel combinare insieme vecchie strade ripercorrendole come in sogno: confondendone i contorni, ora sfumati e ora bruscamente interrotti, sovrapponendone insomma parziali immagini in una prospettiva totalmente irrealistica.» Per paradosso l’idea stockhauseniana che «passato, presente e futuro sono una cosa sola» diventa anche l’estetica di Malipiero nella quale «gli istanti si sommano senza dare luogo ad un divenire dialettico. Si può, anzi, francamente parlare di una vera e propria anestetizzazione del divenire.»

Gian Francesco Malipiero Sonatina.
«Materialmente ho rifiutato il facile gioco degli sviluppi tematici perché ne ero saturo e mi venivano a noia. Imbroccato il tema, voltandolo, girandolo, sminuzzandolo, gonfiandolo, non è difficile costruire un tempo di sinfonia (o di sonata) che diverte i dilettanti e soddisfa la insensibilità degli intenditori. Il discorso della musica veramente italiana (basta pensare a Domenico Scarlatti) non s’arresta mai, segue la legge naturale dei rapporti e dei contrasti: non costruzione geometrica, ma una architettura pensile e solida, antisimmetrica e proporzionata.» (G. F. Malipiero, sulla retrocopertina di un disco di Gino Gorini). La Sonatina è l’unica composizione strumentale degli anni di guerra (1941-44). Secondo Waterhouse essa «si colloca come solitario e tenue legame tra la sua prolifica produzione strumentale degli anni ‘30 e la rinnovata fecondità strumentale dei tardi anni ‘40». Nel Catalogo annotato Malipiero mette in luce la problematicità dell’organico strumentale: «la sonorità di un solo violino, o di una sola viola, o di un solo violoncello, non si fonde col pianoforte, cioè non permette che il discorso diventi una sola espressione; i due istrumenti alzano la voce per contraddirsi a vicenda.» Rispetto alla Sonata a tre, i cui due primi movimenti sono di fatto due brani per violoncello e pianoforte e per violino e pianoforte la Sonatina appare a Malipiero «più snella e apparentemente più spontanea.» Il brano inizia e termina con due brevi sezioni, veloci e briosamente libere. Secondo Angelo Ephrihian, Malipiero ammirò e condivise con Vivaldi «una specie di pazza frenesia sonora, di luce sonora, di gioia del suono». Tali due sezioni della Sonatina sono un bel saggio del suo totale «abbandono all’estro», della sua «illimitata fiducia nel serrato procedere delle proprie intuizioni» (in AA.VV. L’opera di Gian Francesco Malipiero, 1953, p. 185). La sezione centrale costituisce un episodio totalmente contrapposto, un momento fortemente introspettivo, spesso arido e sconsolato. Waterhouse trova questa sezione «sproporzionalmente lunga e un po’ slegata», ma la sua efficacia drammaturgica è inequivocabile: quasi che l’onda delle invenzioni si inaridisca, che il sole che si riverbera nella luce incantata dell’acqua di Venezia improvvisamente scompaia sciogliendo ogni magia, isterilendo ogni bellezza, facendo perdere di senso a ogni cosa.

Igor Stravinskij Duo concertante.
Il rapporto di Stravinskij con il violino fu ispirato e fecondo, molto differenziato nel corso delle varie fasi del suo comporre. Alfredo Casella definiva infatti antiespressiva, «legnosa» e «rugosa» la sua scrittura per violino nel Concertino (1920) e nell’Histoire du soldat (1918). Dopo la composizione della Sacre du Printemps (1913) gli strumenti ad arco appaiono raramente nei suoi organici strumentali, il loro suono risulta «troppo evocativo», «rappresentativo della voce umana». Nel 1928 il balletto Apollon musagète affronta con disinvoltura il lirismo tenero ed espressivo degli strumenti ad arco, negando di fatto le riserve fin qui espresse. Il Concerto per violino e, immediatamente dopo, il Duo Concertant, nascono dalla collaborazione con un giovane violinista polacco-americano di nome Samuel Dushkin – un bravo se non un grande violinista, uomo intelligente e colto. Il primo concerto del duo Stravinskij/Dushkin si tenne a Milano nel marzo del 1932: suonarono il Concerto (nella riduzione pianistica) e una suite tratta dal balletto Pulcinella (la cui stesura definitiva avvenne nel 1933-34 con il titolo di Suite italienne), alcuni assoli. Stravinskij non aveva interesse a suonare in concerto l’usuale repertorio di duo, si mise dunque a comporre il Duo Concertant e una serie di trascrizioni da opere orchestrali – da Petrushka, L’oiseau de feu, Le baiser de la fée – allo scopo di proporre al pubblico esibizioni concertistiche piacevoli e accattivanti. Il brano è permeato da quella forma di imperscrutabile neoclassicismo che aveva caratterizzato la Sonata e la Serenata per pianoforte. Caratterizzato da un gusto arcadico-pastorale che evoca la lettura di Virgilio, è il primo esempio di quell’attenzione all’ethos greco che avrà il suo pieno sviluppo nell’opera- balletto Perséphone (1933-34). L’autore ne motivò la scrittura rigorosa citando un passo di un biografo del Petrarca, che afferma come il «lirismo non esiste senza regole, e bisogna che queste siano severe». Essendo convinto che i due strumenti non avevano alcuna possibilità di fondere i loro suoni in un coerente timbro comune, Stravinskij li pone sovente in competizione. Già nella Cantilène iniziale sono introdotti separatamente, in modo frammentario, presentando le loro caratteristiche distintive; solo nella seconda Eclogue, si ritrovano uniti in un delizioso dialogo melodico. La Gigue, con le sue asimmetrie poliritmiche, funge da brano di contrasto, infine il Dithyrambe, esempio di lirismo senza eguali nella produzione stravinskiana, chiude il brano con fantastica e remota nostalgia.

Manuel de Falla Concerto.
Tale opera di De Falla rappresenta una tappa importante nel processo evolutivo che conduce il musicista andaluso a proporre forme sempre più astratte di stilemi propri del folclorismo nazionale o locale. Nei sette anni (1907-1914) trascorsi a Parigi – dove vedono la luce i suoi primi capolavori – Manuel de Falla aveva stretto con Albéniz e Turina, quella sorta di patto per la creazione di una musica puramente spagnola. Il Concerto per clavicembalo e strumenti fu composto su incarico di Wanda Landowska (alla quale evidentemente piacque poco, poiché lo eseguì due sole volte) nel piccolo carmen dell’Antequeruela Alta, sulle pendici dell’Alhambra a Granada; luogo rimasto mitico in ragione del concorso per il cante jondo organizzato da de Falla insieme a Federico García Lorca e Gerardo Diego nel giugno del 1922. In questa composizione tutti e sei gli esecutori sono solisti; gli archi, grazie alla prescrizione di “attacco al tallone”, sono trattati in modo da ottenere una accentazione persistente che dà origine a sonorità corpose e ruvide, allo scopo di competere – dallo stretto punto di vista fonico – con i più sonori strumenti a fiato. Analogamente la scrittura per il clavicembalo – nel nostro caso il pianoforte, in una versione che l’autore scrisse proprio per poterlo eseguire lui stesso al pianoforte data l’indisponibilità della Landowska – non è sempre in linea con la tradizione: l’impiego di mordenti, fioriture, trilli e figurazioni tipiche dello strumento è moderato, mentre il compositore fa largamente ricorso, specie nel secondo tempo, ad accordi perfetti maggiori, spesso in rapida successione e arpeggiati, dunque particolarmente sonori. Il tema principale del primo movimento è uno dei pochissimi autenticamente popolari di tutta la produzione del musicista: si tratta dell’antica canzone del folclore castigliano del sec. XV, «De los Álamos, vengo, madre» («Dai pioppi vengo, madre»): l’Andalusia (sua terra natale) non è dunque la fonte di ispirazione, quanto la musica popolare dell’ormai lontana Castiglia. Nel corso del movimento il tema popolare viene proposto anche caratterizzato da un’armonia marcatamente politonale, nonostante De Falla abbia sempre negato il ricorso a questa tecnica, sostenendo che gli aggregati accordali da lui impiegati si spiegano in ogni caso, all’interno di un sistema basato sugli armonici naturali degli accordi perfetti. Sorprendente la stringata e ben accentata cadenza finale, che chiude il movimento in un esasperato rallentando assai. La melodia del secondo movimento, dal sapore squisitamente liturgico medievale, trae origine nella canzone del primo tempo, ed è scritta nella forma di stretto canone a tre voci (a distanza di tono) nello stile polifonico antico che tanto affascinava il compositore. Energica anche in questo caso l’armonia, sempre con robusti accordi raddoppiati per le due mani. Pregevole la tecnica di scrittura di arpeggi con fondamentale molto grave, appartenente ad una tonalità lontana, che evoca un maestoso rintocco di campana. Anche in questo movimento compare una sezione bitonale: l’incedere perentorio di un accordo di la maggiore alla tastiera, si contrappone al luminoso tema affidato agli altri strumenti nella tonalità di fa maggiore. Si crea la suggestione dell’incedere di due cortei diversi; segue una magnifica cadenza. Il terzo movimento, formalmente assai elaborato, rivela con evidenza l’intenzione di ricreare lo stile di Domenico Scarlatti, tanto ammirato da De Falla, attraverso una musica piena di grazia settecentesca. Danzante conclusione di un concerto che ci lascia con il sapore di una tonadilla, di un breve intermezzo di sapore teatrale dal sapore antico. Una musica che non poteva non ottenere i favori del più geniale esponente del neoclassicismo musicale novecentesco, Igor Stravinskij, che così ricorda l’esecuzione londinese del Concerto nel giugno 1927: «Ascoltai anche, con vero piacere, il suo Concerto per clavicembalo o pianoforte ad libitum, che eseguì personalmente su quest’ultimo strumento. Per conto mio, queste due opere [il Concerto e il El retablo de Maese Pedro, eseguito nella stessa occasione] segnano un progresso incontestabile nello sviluppo del suo grande talento, che si è quasi liberato risolutamente dall’impaccio folcloristico che rischiava di sminuirlo.»

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