Nei suoi Diari, il pittore Paul Klee scrisse: «Mozart, senza avere una visione chiara del suo “inferno”, si salvò nella parte gioiosa dell’essere». Oggi, la nostra visione del genio salisburghese non contempla più quella parte di incoscienza e di ingenuità che un tempo era attribuita al prodigio.
Tuttavia permane il mistero insondabile di una sorta di duplicità mozartiana: sotto l’immagine del fanciullo baciato dagli Dei si agitano il dionisiaco e il tragico, espressi spesso da quelle “inquietanti simmetrie” di cui ha trattato – anche in chiave psicanalitica – Maynard Solomon. «Nessuno canta così puro come coloro che sono nel più profondo inferno: quello che crediamo il canto degli angeli è il loro canto » scriveva Kafka.
I Concerti K 456 in si bemolle maggiore e K 491 in do minore, apparentemente la luce e l’ombra, sono in realtà costellati di quella sublime ambiguità che chiamiamo “bellezza”, ma che è prima di tutto un interrogarsi (conscio o inconscio?) e uno struggersi sulla vita e sulla morte.
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